La Basilica “San Domenico Maggiore” – Napoli
Risale, come il Duomo e Santa Chiara, al tardo Medioevo. E’ chiamata così per distinguerla dalle altre chiese di Napoli affidate ai domenicani, per i quali essa è sempre stata il più importante luogo di culto della città, in seno alla quale spicca per la sua notoria imponenza. L’edificio viene a trovarsi là dove le mura occidentali cingevano la città greco-romana, come dimostrano le tracce da questa lasciate nelle sue vicinanze.
La basilica venne costruita per i domenicani ai tempi dei re angioini Carlo II e Roberto il Saggio tra la fine del Duecento e il terzo decennio del Trecento. L’Ordine si era insediato stabilmente in città fin dal 1231, anno in cui i suoi frati con a capo Tommaso Agni da Lentini erano entrati in possesso della chiesa di stile romanico denominata San Michele Arcangelo a Morfisa, servita fin allora prima dai basiliani e poi dai benedettini, ai quali apparteneva anche l’annesso edificio conventuale. Tale chiesa risulta parzialmente inglobata nel prolungamento del braccio destro della crociera della basilica attuale ed è immediatamente visibile a chi entra in chiesa venendo dalla piazza San Domenico Maggiore grazie allo scalone aragonese. Fu questa la chiesa frequentata da San Tommaso († 1274), che qui dové essere ricevuto all’abito e, verso la fine della sua vita, se stiamo a un biografo del tempo, sentì dirsi dal crocifisso, ancora conservato: «Hai scritto bene di me, Tommaso, cosa vuoi in compenso?». Al che questi rispose: «Niente altro che te, Signore».
Il tempio ha tre navate. Il suo stile originale è quello gotico della Provenza, da cui provenivano gli Angioini. Inizialmente doveva essere più raccolto, quindi più mistico e meno ricco di luce. Nel corso dei secoli infatti le sue linee originali vennero alquanto alterate. Tra l’altro si passò a bifore più ampie e al soffitto a cassettoni con stucchi dorati, mentre in precedenza quest’ultimo doveva presentare al pubblico le classiche capriate in legno. I mutamenti sono attestati anche dalle insegne degli Aragonesi agli angoli del soffitto. I vari interventi vanno attribuiti sia alla necessità di restauri dopo alcuni eventi tellurici sia all’adattamento ai gusti del tempo, quello barocco in particolare. L’intervento maggiore risale a metà Ottocento, quando i lavori furono affidati al Travaglini, le cui scelte non riscossero il consenso generale degli esperti.
La chiesa resta comunque molto bella. Si può ammirare soprattutto di sera quando l’illuminazione ne mette in rilievo tra l’altro le linee, comprese quelle delle volte laterali, e il soffitto dorato.
Con l’andare dei secoli San Domenico Maggiore è stata arricchita da tutta una serie di cappelle e di notevoli opere d’arte, alcune delle quali messe al sicuro negli ultimi decenni dalla Soprintendenza nei musei della città (la Flagellazione di Caravaggio, l’Annunciazione di Tiziano), mentre un dipinto di Raffaello (la Madonna del Pesce) fu mandato in Spagna già nel Seicento e oggi si può ammirare nel museo del Prado a Madrid. Ma le opere d’arte che la basilica continua a custodire tuttora non sono poche. Si tratta di sepolcri (in particolare quelli dei membri del seggio nobiliare di Nido, responsabili della zona della città e a lungo i maggiori benefattori del tempio), sculture, pitture ecc. Basta fare i nomi di alcuni artisti: Tino da Camaino con le figure marmoree femminili del candelabro pasquale rappresentanti le virtù e i leoni presso l’altare maggiore, Pietro Cavallini di cui vanno menzionati gli affreschi trecenteschi di una delle cappelle della navata destra, Colantonio la cui tavola campeggia sull’altare della cappella del Crocifisso, Pietro Belverte da Bergamo e il suo presepe ligneo sistemato in una delle minuscole cappelle che arricchiscono quest’ultima, per non parlare delle tele di Luca Giordano e Mattia Preti, nonché dell’affresco di Francesco Solimena sulla volta della sacrestia, delle sculture di Giovanni da Nola (la Madonna delle Neve) e Girolamo d’Auria (san Giovanni Battista) della navata sinistra e dei puttini di Lorenzo Vaccaro sull’altare maggiore. L’urna che si scorge sotto tale altare contiene le reliquie del beato Raimondo da Capua, confessore di Santa Caterina da Siena e maestro dell’Ordine. La chiesa conserva anche le sepolture di altri quattro maestri generali dei domenicani.
Da non trascurare la sagrestia monumentale, che conserva le arche degli aragonesi, alcuni stipi monumentali e tutta una serie di sarcofaghi di grossi personaggi che vissero tra il Quattrocento e gli inizi dell’Ottocento. Di notevole interesse per la sua antichità è pure il trecentesco portale principale della basilica, finanziato da Bartolomeo di Capua, protonotario del Regno ai tempi dei re angioini cui si deve la basilica. Al Quattrocento risale invece il portale che nota chi entra in chiesa dallo scalone aragonese che dà sulla piazza San Domenico Maggiore.
Non è il caso di accennare ai domenicani di spicco che operarono nella basilica attuale (almeno con la loro presenza al coro) per essere vissuti nell’annesso convento. Non è però il caso di trascurare il fatto che il filosofo nolano Giordano Bruno, quasi certamente, nel comporre uno dei suoi libri, dové ispirarsi ai simboli astrologici tuttora visibili sulla volta della cappella che affianca sul lato destro l’entrata principale della basilica.